Domenico Pizzuti ci ha passato un'interessante nota sull'istituzione del registro delle unioni civili a Napoli, che ha fatto discutere.
REGISTRO DELLE UNIONI CIVILI A NAPOLI
La giunta comunale napoletana, guidata da Luigi De Magistris, ha avviato con due delibere l’istituzione del Registro delle unioni civili che, nell’ordinamento giuridico italiano riguardano le forme di convivenza tra due persone che, seppure legate da vincoli affettivi ed economici, non sono unite in matrimonio. In questa disciplina rientrano tutte le coppie di fatto, siano esse eterosessuali che composte da persone dello stesso sesso. La proposta ha fatto discutere sotto vari profili, non ultimo quello della priorità di un simile provvedimento di fronte ai gravi problemi che affliggono le famiglie napoletane degli strati popolari ma non solo.
Un dato empirico induce a riflettere e riguarda il trend dei matrimoni civili che crescono in Italia nel periodo 1951-2006, secondo un recente studio di R. Cartocci, “Geografia dell’Italia cattolica”, Il Mulino, Bologna 2011. Emerge un particolare in controtendenza per il Comune di Napoli in cui il tasso di matrimoni civili cessa di crescere dopo il 1986, con la città di Napoli che nel 2006 si attestava su 26,3% rispetto ai capoluoghi centro settentrionali dove superava anche il 50% «Chi scrive, osserva il Cartocci, non è in grado di dare una spiegazione di questo crollo dei matrimoni civili nel comune di Napoli. Naturalmente potrebbe esserci la spiegazione più logica, un’impetuosa ripresa dei valori cattolici, che progressivamente riduce il numero dei matrimoni civili. E’ comunque sorprendente che una tale ripresa di religiosità non abbia avuto una visibilità maggiore e soprattutto non sia riuscita a innervare un riscatto delle condizioni di degrado e di criminalità diffusa che negli ultimi due decenni hanno portato la città al centro delle cronache quotidiane» (p. 62). Forse bisognerebbe più semplicemente verificare l’attendibilità delle fonti dei dati statistici.
Sotto un profilo biblico, non indifferente per la questione, sovviene un passo paolino della famosa Lettera ai Romani (Rom, 9-18) che si è letta il 30 novembre in tutte le chiese nella ricorrenza liturgica di S. Andrea apostolo, riguardante la professione della fede cristiana, rispetto ad una dibattuta questione del tempo: «non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l’invocano. Infatti “Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato”». Si può fondatamente ritenere che l’invocazione che ottiene la salvezza cristiana possa e debba partire dal centro della persona sposata o celibe che sia, in matrimonio legittimo o in coppia di fatto, dall’interno del pluralismo delle forme familiari che caratterizza le nostre società e così via. Nessuno è escluso dall’invocazione che salva in riferimento alle diverse forme che connotano le identità personali e sociali e si deve nel contempo lasciarsi interrogare da essa per una verifica delle situazioni di vita. Infatti, nel cap. 1, 26-32 della stessa Lettera Paolo evidenzia il traviamento dell’uomo anche in campo sessuale quando rifiuta di riconoscere il Creatore.
In questa prospettiva di fede biblica, che non è in alcun modo relativistica, si configura una uguaglianza sostanziale dell’invocante, perché nessuno è escluso in riferimento alle stesse situazioni familiari o altre da questa invocazione e professione di fede (criminale carcerato, drogato, sfruttatore del lavoro, delle donne e dei beni pubblici, corrotto e corruttore e così via) che smaschera ogni ipocrisia e bigottismo di chi si sente giusto e stabilisce leggi e norme per gli altri. E nello stesso tempo non sono diminuite o annullate le differenze di tipo familiare o altre che sono affidate all’onesta valutazione di criteri morali non giustificativi di situazioni di fatto (discernimento morale). Se l’invocazione è vera, si verifica per esperienze riconosciute un ritorno illuminante e nel caso modificante - per convinzione - comportamenti e scelte di vita nella comune fragile condizione umana per l’intreccio di fattori e condizionamenti personali e sociali.
Non si tratta di una prospettiva puramente intimistica e individualistica su un piano religioso, ma profondamente veritativa della condizione umana che invoca riscatto e salvezza nel contesto della storia personale e sociale. E quindi contribuisce a tonificare ogni dibattito in merito, liberandolo da ipocrisie ed esasperazioni: per esempio, il puro richiamo a norme civilistiche esistenti non è in ogni caso riferimento a normative codificate regolative di situazioni di fatto, anche se certo non è un dettato legislativo che riconosce coppie di fatto?
Non riteniamo fuori luogo e senza conseguenze l’attenzione ad una simile prospettiva biblica nel dibattito che si è sviluppato in verità sotto tono, che interroga soprattutto credenti maturi e capaci di distinguere i diversi ambiti (morale e politico), pur assumendo come priorità la promozione anche legislativa della famiglia o delle famiglie in Italia.
Domenico Pizzuti
Napoli, 30 novembre 2011